Anthony Weatherill

Anthony era un figlio di Manchester, laddove il calcio era lo sport dei lavoratori cotonieri e dei minatori, espressione di una lievità assente nella vita quotidiana di quasi tutti i giorni, ma presente all’Old Trafford, casa dello United, e al Maine Road, casa del City. Aveva respirato l’aria del grande calcio sin dall’infanzia, attraverso le vicende dello zio Matt Busby che lo aveva battezzato in chiesa e anche sul prato dell’Old Trafford. Questo lo aveva portato a contatto con gente come George Best e Bobby Charlton, che erano lo sbuffo di colore a incrinare la malinconia grigia del cielo della città mancuniana.

Nasce nel cuore di questo sbuffo di colore la passione di Anthony per i tifosi, per lui i veri protagonisti che hanno reso grande ed epico il gioco del calcio. In nessuno altro sport i tifosi vivono una simbiosi totale con la loro squadra e le dedicano interesse non solo in modo totalmente gratuito, ma anche finanziandola nei molteplici modi che si conoscono(biglietto allo stadio, merchandising, abbonamenti tv, ecc…). Questo aspetto Anthony lo aveva capito fin troppo bene, anche grazie alle lezioni di quel Matt Busby fermamente contrario all’ingresso della finanza e delle sponsorizzazioni nelle vicende dello sport più seguito, amato e trasversalmente sociale del mondo. Per tenere lontani i “mercanti dal tempio”, Anthony sapeva bene come l’unico antidoto fosse una presenza dei tifosi più attiva e assertiva alla vita dei club di riferimento. Aver pensato ad una “Carta del Tifoso” per assemblare in una piazza digitale le idee e le forze dei supporter, è stata la grande idea su cui ha lavorato trent’anni della sua vita, non risparmiandole tempo e risorse economiche. Sapeva bene quanto il compito fosse improbo, per non dire impossibile, ma era convinto che ad una forza preponderante come quella delle istituzioni calcistiche ed economiche, solo contrapponendo un’altra forza altrettanto preponderante come quella dei tifosi uniti attorno ad una idea poteva essere la via per non far scippare alla gente comune il gioco del calcio, che trova la sua genesi  proprio nel senso comunitario e nei valori sociali. Anthony, da buon inglese, non considerava il denaro “lo sterco del diavolo”, e sapeva come il potere e i cambiamenti passano per il suo utilizzo. “Noi tifosi dobbiamo capire-diceva-, che la ricerca del denaro anche da parte nostra serve come contrapposizione a chi non si fa scrupoli di mercanteggiare persino con il colore di una maglia. Non dobbiamo avere paura del denaro e del valore degli interessi, essi servono per assumere un peso politico da mettere sul tavolo delle trattative con dirigenti e presidenti di club e istituzioni che sono solo di passaggio attraverso il calcio, mentre noi tifosi ci saremo sempre. La “Carta del Tifoso” serve ad unirci e ad assumere potere per non farci sfilare il gioco”. Era una persona curiosa di ogni cosa riguardasse il mondo dello sport e aveva studiato a fondo la problematica degli stadi, perché la sua infanzia trascorsa sulle gradinate dell’Old Trafford lo aveva convinto di come il “luogo dello svolgimento del rito” fosse il centro della memoria di tutta la comunità dei tifosi. Per questo aveva accettato di interessarsi degli stadi dei Mondiali del Qatar del 2022, e si era buttato nella loro progettazione non solo come luogo del consumo dell’evento iridato, ma come prospettiva proiettata nel futuro per l’incontro tra le varie tifoserie. Con un architetto di fama internazionale, aveva cercato di far diventare il problema del caldo dell’emirato e le sue piccole dimensioni una opportunità, progettando una città sotterranea a collegare tutti gli stadi del mondiale, dove le tifoserie delle nazionali potessero relazionarsi e fraternizzare. Era una idea ancora una volta che vedeva al centro i tifosi e le loro esigenze, e che inizialmente aveva riscosso il favore dell’Emiro Tamim bin Hamad al-Thani. “Gli interessi attorno al calcio sono molteplici -ribadiva spesso-, e non tutti sono nell’interesse del calcio”, ecco perché la sua iniziativa qatarina era naufragata. Altri, e più potenti, erano gli affari in gioco. La stessa cosa gli era capitata con la “Carta del Tifoso”, presentata al Ministero degli Interni il 7 luglio del 2005, il giorno degli attentati terroristici di matrice islamica a Londra. “Mi hanno scippato l’idea della Carta Tifoso- si rammaricò in seguito- e ne hanno fatto uno strumento di “sicurezza”. Non sono rammaricato per me, ma per aver reso per sempre ambigua l’idea della Carta”. Ma Anthony non era il tipo d’uomo pronto ad alzare bandiera bianca. Ormai provato da una dolorosa malattia, partì per Ryad per cercare di mettere insieme, con l’ausilio della Famiglia Reale saudita, un fondo per poter permettere ai tifosi italiani di poter finanziarie iniziative di polisportive sul modello di Real Madrid, Barcellona e Bayern di Monaco. Sarebbe stata la sua ultima battaglia, la sua frontiera finale. Non ce l’ha fatta, ma rimane il principio ispiratore dell’iniziativa, così come quella della “Carta del Tifoso”. “Ciò che rimane di noi è il bene che abbiamo fatto”, disse poche ore prima di andarsene, ancora animato dallo spirito fiero e positivo della sua terra mancuniana. Aveva incontrato tutte le persone chiave del calcio, e ne aveva ricavato un’unica impressione:”lo sfacelo etico è tale, che solo noi tifosi possiamo salvare questo gioco”. Aveva una attenzione particolare per i bambini e la loro educazione ala vita: “bisogna dargli l’infanzia migliore possibile, al limite del favoloso. E il calcio, quello vero, può darglielo. I tifosi devono fare qualcosa per i bambini”. Come amava ripetere spesso, “il calcio è il più bel racconto mai pensato dagli uomini”. Aveva ragione, come tutte quelle persone coraggiose davanti alle insidie della “frontiera”.

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